Qualche settimana fa abbiamo parlato del “caso dello Xinjiang“, in Cina, dove gli Uiguri, gli abitanti turco-musulmani del paese, sono coinvolti in una produzione del cotone considerata sempre più conflittuale e drammatica. Una situazione che, purtroppo, non è isolata, perché sono molte nel mondo le realtà ‘occulte’ che riguardano la moda e, di conseguenza, noi consumatori. Il Vietnam, il Myanmar e l’India sono i Paesi ‘teatro’ delle situazioni più drammatiche degli ultimi tempi.
Tuttavia, per merito di diverse inchieste giornalistiche e numerose campagne come Fashion Revolution e Abiti Puliti, nuove situazioni ‘invisibili’ e critiche sono venute a galla, rivelando come migliaia di donne siano diventate a tutti gli effetti ‘schiave’ di un sistema “malato” e parallelo dell’industria tessile.
Una di queste realtà, è quella di Tangeri, la città marocchina a 14 chilometri dalle coste spagnole che ospita centinaia di fabbriche abusive del comparto tessile, uno dei più importanti settori per l’export del paese.
Foto Davide Lemmi
Nei sotterranei della città, donne giovani o di età media lavorano senza sosta dal lunedì alla domenica, con un salario mensile che si aggira intorno ai 200 euro, quasi la metà del salario minimo legale in Marocco. Questa realtà è stata raccontata per la prima volta l’8 febbraio scorso, perché nella notte, un’ondata di maltempo improvvisa ha colpito una di queste fabbriche ospitata in uno scantinato del distretto di Tangeri provocando una vera catastrofe: sono morte 28 persone, di cui 19 donne e 9 uomini “supervisori”. Tutti annegati in uno spazio stretto, super affollato, che non aveva finestre né tantomeno uscite d’emergenza.
Lo scantinato, insomma, si è rivelato una trappola mortale. Questo riporta alla mente il terribile episodio che poi ha dato vita a quella che impropriamente viene chiamata la “Festa della donna”: quello dell’8 marzo del 1911 quando un gruppo di operaie di un’industria tessile di New York, che stava protestando per le insostenibili condizioni di lavoro, venne chiuso dai proprietari dentro la fabbrica che poco dopo, per un incidente, prese fuoco e morirono 134 lavoratrici.
In 110 anni, insomma, per molte donne non sembra che le cose siano migliorate troppo.
“L’acqua è entrata come uno tsunami e ha sommerso tutto in pochi secondi”, hanno dichiarato, in un articolo ripreso dalla rivista Internazionale, alcune delle sopravvissute. “Potevamo morire”, dicono. “Alcune di noi erano riuscite a mettersi in salvo ma le ambulanze sono arrivate troppo tardi” è il racconto agghiacciante della tragedia.
Le fabbriche ‘fantasma’ non sono monitorate dal governo marocchino. Alcune di esse sono totalmente abusive, altre dichiarate, ma solo in parte, poiché spesso ospitano il triplo dei lavoratori. “Dicono che siano fabbriche illegali, ma in realtà tutti sanno che esistono e sono aziende note. Le chiamiamo fabbriche clandestine perché non rispettano le minime condizioni di sicurezza e i diritti dei lavoratori“, ha dichiarato Ara Aboubakr Elkhamilchi, membro fondatore dell’organizzazione per i diritti dei lavoratori Attawassoul.
Ma le micro fabbriche in realtà sono tante. Si chiamano hofra e a Tangeri nascono come funghi, nei posti più inaspettati. E sono spazi umidi e sporchi. Non più grandi di 40 metri quadri, ospitano macchinari pericolosi che, spesso, cadono a pezzi. Le donne di Tangeri sono ‘imprigionate’ in questo circolo vizioso, umiliate da un salario troppo basso per un’attività praticamente senza sosta. Ogni giorno vanno al lavoro, spaventate, stanche e vulnerabili, senza diritti né voce. Ma a nessuno importa. Alternative per loro, al momento, non ci sono e la via di fuga è solo un miraggio.
Ognuna di queste micro attività crea una forza lavoro che rappresenta il 60% del comparto tessile marocchino, al servizio dei grandi stabilimenti che operano su commissione delle grandi aziende di moda internazionali. Tra i marchi più noti che si ‘approvvigionano’ a Tangeri, secondo le inchieste giornalistiche che hanno portato a galla questa terribile realtà, c’è il gruppo Inditex, che comprende diversi giganti del fast fashion e del low fashion, ma anche i marchi di moda del lusso internazionale che affidano la loro produzione alle fabbriche di Tangeri, quelle ‘vere’, che però, come in una catena di montaggio, si affidano agli hofra per accelerare la produzione.
Quando le case di moda si rivolgono alle ‘aziende tessili’ di Tangeri, non ci sono controlli. Il problema è forse nella superficialità con cui i grandi marchi delocalizzano la produzione. Una superficialità che nei fatti ha generato la nascita degli hofra, in cui le donne continueranno ad essere sfruttate e umiliate fino a quando i grandi gruppi industriali non diranno basta. E in un periodo in cui tutti dicono di volere una moda “sostenibile” non solo in termini ambientali, ma anche sociali, forse è giunto il momento di farlo.
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