Contrastante, altera, a volte spregiudicata: Londra è la casa della pura sperimentazione fatta di creazione e mistificazione del concetto di abito. Un luogo capace di attrarre a se giovani designer che la scelgono come principio del loro percorso creativo, anche grazie ai percorsi di formazione che la capitale inglese offre, rimanendo, anche un domani, lo scenario ideale dove potersi esprimere. E così la London Fashion Week , nella sua istituzionalità, si fa da presta voce a nomi nuovi che vivono per la prima volta il sistema facendone parte.
Da Molly Godard a Stefan Coke, ma anche gli internazionali JW Anderson e Raf Simons: sono tutti nomi che hanno fatto di Londra il loro luogo di nascita e ancora adesso scenografia di collezioni dal ‘’british touch’’. Ma quali sono i nomi dei quali, nonostante apparizioni sul calendario, copertura mediatica, e risonanza internazionale, non si sente ancora parlare abbastanza?
Questa è una short list di quelli che meritano l’attenzione, anche solo un colpo d’occhio, perché spesso parlano e altrettanto spesso non vengono compresi a pieno.
Harri
Ludico, ironico ma anche riflessivo e atemporale: il brand Harri si muove in uno spazio indefinito, attingendo dagli anni 60 per forme e stampe e dagli anni 80 per le costruzioni a contrasto. Un futurismo tutt’altro che pratico, che ricorda le prime collezioni di Courreges, dove l’abito era parte della scenografia, ma che in Harri muta in una scena dalle forme ricurve, come i suoi pantaloni balloon. L’omonimo designer ci invita ad osservare la realtà con gli occhi dell’assurdo, del possibile, ricordando a chiunque che dentro di se si nasconde un immaginario incomprensibile all’esterno, che è proprio e personale e per questo inspiegabile senza misurata autoironia e matura giocosità.
Chet Lo
La tridimensionalità dell’abito è uno dei suoi segni distintivi e con le sue maglie sporgenti ridefinisce la fisicità del corpo. La sua estetica è l’incontro tra Occidente e Oriente in una narrativa modernista, che si rifà ai vecchi movie fantascientifici d’autore, includendo anche qualche corrente queer contemporanea. Decisamente attuale, il messaggio dietro ogni collezione di Chet Lo è lo stesso, quello di non smettere mai di scoprirsi ed immaginarsi diversi.

Feben
In Feben l’innovazione ancor prima di essere nella shape, è nella texture e nei pattern scelti. Un’estetica ‘’a recupero’’, che si avvale della vivacità di tessuti per sostenere una moda a ‘’riuso’’, i cui materiali provengono da luoghi lontani. Dal Sudamerica all’Oriente, il suo è un immaginario composito che incontra il surrealismo e un desiderio di escapismo, cioè quella continua fuga in cerca di un luogo sicuro, che deriva dalle sue esperienze personali di migrante. Profuga per anni, la designer spiega che le sue collezioni nascono per guidare la donna, accompagnandola ovunque lei voglia, in un sodalizio che sa tanto di sorellanza abito-donna.
Eudon Choi
Cosi formale e tailor-made che l’intera Saville Road sembra guardare ad EudonChoi con ammirazione. Un immaginario dove il genere si confonde e lascia spazio ad un’esile femminilità a tratti maschile, con camicie e abiti destrutturati che mostrano una predominante fluidità in tagli e proporzioni. Per il brand inglese la tradizione del Regno Unito, fatta di completi sartoriali e costumi locali, è motivo d’orgoglio e va preservata, quasi custodita nelle collezioni di chi, ad ora, porta avanti il nome del ‘’Made in UK’’. Di certo un nome consueto per il calendario di Londra, risuonante già tra i media, ma che ancora non si riconosce alla guida della nuova generazione, ma solo dopo i nomi illustri.
Susan Fang
Come in una favola vestita di drappeggi e tinte rosee, per Susan Fang l’abito ha il compito di proiettare su ogni donna il suo lato fragile, infantile nascosto dietro sovrastrutture che la società contemporanea impone. Un invito a ritornare fanciulli, a sperimentare su di se immaginandosi altro, come se ognuno fosse autore ed interprete della propria commedia disillusa. Un finale disincantato che ad ogni collezione ricorda al suo pubblico di quanto la fragilità dell’Io sia un bene prezioso, dove ogni abito è esemplare di una proprio ordine interiore.
Dilara Findikoglu
Non esiste sensualità senza corpo. In Dilara Findikoglu la musica delle linee curve della fisicità femminile si alternano al silenzio di stupore dell’eros, nascosto ma esistente. In poche, ma già note, collezioni è riuscita a spodestare il giudizio critico dell’uomo a favore di una di un agiato e disinibito erotismo che si allontana dallo stereotipo del nudo esplicito per incontrarsi con uno più percettivo fatto di usi e costumi. Tutto è velato dietro completi di lurex scivolato e trasparenze pacate, alternati a richiami di kimoni e costumi orientali, che celano il mito terreno del corpo come desiderio.
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